Evoluzione sociale, modello familiare e formazione dell’identità: ipotesi per un
mutamento
di Iole Natoli
(Il Confronto meridionale, Maggio 1988)
Ciascun soggetto umano dispone di una capacità d’assimilazione psichica, che gli consente d’introiettare un’enorme quantità d’informazioni, molte delle quali attraverso immagini e forme simboliche.
Una metodologia educativa non si limita, di fatto, a sviluppare le energie umane, indirizzandole in questa o quella direzione, a seconda delle inclinazioni individuali; essa radica altresì nelle nuove generazioni una vasta gamma di abitudini e comportamenti, consoni ai valori ritenuti essenziali da un dato gruppo sociale.
Una società pacifista si porrà obiettivi e strategie educative differenti da quelli d’una società guerrafondaia. E tuttavia, ove in essa agiscano nascostamente uno o più fattori di condizionamento, il modello educativo che esprime sarà intrinsecamente disturbato da uno o più vizi d’origine.
Tra i fattori che s’oppongono al cambiamento, ovvero all’invenzione di nuove formule di vita, è possibile individuare alcuni elementi, comuni ancora oggi a buona parte delle società evolute, che concorrono alla conservazione di un’immagine occultamente arcaica della famiglia. Apporto economico, prestigio professionale, contributo culturale sono elementi che, se inegualmente distribuiti tra i membri d’una coppia, creano disarmonia di ruolo tra i coniugi, perché producono scompensi del loro personale prestigio, all’interno come all’esterno della famiglia.
Una disuguaglianza di tal fatta colpisce abitualmente l’elemento femminile della coppia. Le cause di tutto ciò sono molteplici e affondano le loro radici nella discriminazione più o meno palese, che ha condizionato nei secoli la vita delle donne, a partire dal momento della nascita. Considerate come soggetti umani di natura “inferiore”, le donne sono state sistematicamente emarginate, fino a tempi recenti, da quei processi di crescita culturale e produttiva, che solo avrebbero potuto consentir loro il raggiungimento e l’esercizio d’una posizione paritaria nella vita sociale. Eccezion fatta, s’intende, per quei pochi casi che, proprio perché numericamente limitati, non possono aver rilevanza in termini di distribuzione del fenomeno.
Tra i fattori che producono discriminazione tra uomo e donna, determinando un modello familiare non paritario, è possibile individuarne uno che da quelli ora considerati si diversifica, perché, pur essendo presente in maniera uniforme, almeno sino a qualche tempo fa, in ciascun nucleo familiare della maggior parte delle nazioni, ha la caratteristica d’essere indipendente dalla volontà dei singoli soggetti e pertanto non suscettibile di modifica a livello individuale.
Ci si riferisce alla modalità d’assunzione del cognome, predeterminata nella maggior parte dei Paesi da leggi esplicite o da tradizioni secolari. In virtù di essa, quel segno distintivo della personalità individuale che è il cognome, come parte integrante del nome, viene a coincidere con quello d’uno solo dei genitori e cioè, nella quasi totalità dei casi, con il cognome del padre. Rarissime sono le eccezioni a questa regola, se si escludono i casi in cui l’assunzione del cognome materno, essendo riservata solo alla filiazione non legittima, finisce col diventare per i figli un fatto di difficile gestione, perché denunciante una situazione socialmente percepita come anomala e pertanto vissuta come particolarmente disagiante.
È così per il figlio e per la figlia. Entrambi vengono identificati con un solo cognome fin dai primi anni, negli ambienti scolastici, nei documenti che li riguardano, in molteplici situazioni della vita quotidiana. Sulla porta dell’abitazione in cui crescono, c’è il cognome con cui sono chiamati ed al quale abitualmente rispondono: quello del padre. Per la figlia l’assurdità di tale stato di cose è ancora più marcata: dal cognome su cui le è dato di fondare la propria identità, la donna manca.
Lo strutturarsi dell’identità infantile attraverso il solo cognome del padre costituisce così una pregiudiziale, che le strutture giuridiche dei vari paesi hanno imposto ai soggetti, viziando all’origine la possibilità di un’assimilazione nell’infanzia delle due figure genitoriali, libera da schemi preconcetti.
Detta pregiudiziale obbliga i figli di entrambi i sessi a percepire il padre come unica figura in grado di fornire certezza d’identità personale e sociale e la madre come figura elargitrice d’una sicurezza, che può essere erogata solo attraverso modalità culturalmente meno valorizzate ed apprezzate, perché legate agli aspetti più immediati dell’allevamento. Non mi sembra azzardato ritenere che ciò possa agire come fattore disturbante per lo sviluppo della personalità. È pensabile infatti che:
a) l’impossibilità di ricevere dalla madre anche il mezzo attraverso il quale strutturare la propria identità, all’interno del gruppo, inibisca nella donna il formarsi d’una capacità d’identificazione sufficientemente ampia in un esponente del suo stesso sesso; da ciò la difficoltà maggiormente avvertita dal mondo femminile nell’esprimere una propria rappresentanza, a cui non fa riscontro analoga difficoltà nel mondo maschile, che, in qualsiasi situazione di repressione e discriminazione, è sempre riuscito ad esprimere un leader;
b) il figlio, qualora si senta portato ad aderire spontaneamente al mondo dei valori materni più che a quello paterno, viva una situazione conflittuale. Poiché la madre è anche colei che non fornisce il cardine, cioè il cognome, attraverso il quale il figlio viene riconosciuto dal gruppo, egli non può ricevere da lei, su questo versante, compensazione alcuna all’insicurezza determinata dal parziale o totale rifiuto dell’identificazione con il padre. Non è da escludere che quel tipo d’aggressività maschile delinquenziale, giunta a concretizzarsi di frequente in episodi di violenza sessuale individuale o di gruppo, non abbia, tra i fattori che sono alla sua origine, anche l’estraneità della donna ai processi di formazione dell’identità maschile. Può darsi, indubbiamente, che tale intuizione sia infondata; ma se non lo fosse, sarebbe follia non cercare di rimuovere un fattore, che di formale avrebbe, in tal caso, ben poco.
Le nuove legislazioni di Norvegia, Danimarca e Svezia sembrano le più idonee, al momento, a istituire nelle rispettive società un modello familiare diverso. E tuttavia non sappiamo quali scelte nella vita reale la gente faccia, e se per caso sia diffusa per la donna l’usanza di sostituire col matrimonio al proprio il cognome dell’uomo, affinché il figlio porti automaticamente il cognome del padre; bisognerebbe indagare concretamente su questo. Né sappiamo quanto la più antica legislazione spagnola, che prevede l’acquisto dei cognomi di entrambi i genitori alla nascita, rispetti poi, nei fatti, la presenza della donna. Non essendo previsto anche un meccanismo che inibisca l’effetto moltiplicativo dei cognomi, è probabile che nella vita quotidiana ciascuno utilizzi il primo cognome soltanto, che è sempre quello del padre (in prima posizione, per regola generale). Sono ancora pochi gli altri Stati in cui sono state già varate delle riforme; si tratta peraltro di mutamenti parziali e facilmente eludibili.
Un disegno di legge sul cognome della famiglia, presentato anni addietro alla Camera dall’on. Maria Magnani Noja e mai discusso in Parlamento, è stato ripresentato in Senato dall’on. Elena Marinucci. Prevede una serie di norme, che dovrebbero consentire alla coppia di scegliere quale cognome attribuire ai figli. Si ripete ancora una volta lo schema del cognome unico, benché tale cognome non sia più necessariamente quello del padre. Ma, come ho già rilevato in un mio scritto dell’82, «in Italia non siamo più nell’era del matrimonio unico. La formula sarò tua (o tuo) per la vita è caduta parecchio in disuso dopo l’introduzione del divorzio, anche a livello formale. È da notare che, già prima di allora, la morte di una delle parti provvedeva talora a modificare quell’assetto concordato, creando alle vedove risposatesi assurde ed estranianti discordanze tra i cognomi dei figli nati da differenti matrimoni, in barba al conclamato principio dell’unità familiare». Con il divorzio, la frequenza di tali situazioni è aumentata.
All’inizio di questa legislatura, un altro progetto è stato presentato alla Camera da alcuni deputati comunisti e della Sinistra indipendente: prevede il possibile uso di due cognomi.
Una richiesta in questo senso, la prima in Italia, era stata avanzata da me personalmente nell’80, al Tribunale Civile di Palermo, affinché giungesse alla Corte Costituzionale. Il Tribunale respinse l’istanza. Da allora molta strada s’è fatta; richieste analoghe sono state avanzate in altre parti d’Italia. La Corte Costituzionale ha di recente sostenuto che spetta al Parlamento legiferare in materia.
Da fautrice del doppio cognome, quale sempre sono stata, ripropongo alcuni fattibili ed aggiornati articoli d’un mio antico progetto:
Art. 1 (Struttura del nome). Nel nome si comprendono un prenome e due cognomi.
Art. 2 (Cognomi della famiglia). All’atto del matrimonio ciascuno dei coniugi indica con apposita dichiarazione all’Ufficiale di stato civile:
- quale dei suoi cognomi rende disponibile per la famiglia;
- l’ordine nel quale preferisce che tale cognome sia assunto dal figlio.
Il cognome indicato ai sensi del comma precedente deve necessariamente coincidere con il cognome già reso disponibile in occasione di precedente matrimonio, del quale siano cessati gli effetti civili o che sia stato dichiarato nullo, o che sia stato assunto da un figlio naturale riconosciuto.
Art. 3 (Cognomi dei coniugi). Ciascuno dei coniugi mantiene entrambi i propri cognomi, ove non dichiari di volersi avvalere della facoltà di cui al comma seguente.
Ciascuno dei coniugi ha facoltà di mantenere solo il cognome che ha dichiarato disponibile per la famiglia e di aggiungere ad esso il cognome dell’altro coniuge che questi ha reso disponibile per la famiglia. Del cognome sostituito non viene più fatta menzione, salvo nei casi previsti dall’art. 5.
La facoltà di cui al comma precedente può essere esercitata da entrambi i coniugi o da uno solo di essi; ove non sia stata esercitata all’atto del matrimonio, può essere esercitata all’atto della nascita del primo figlio.
Art. 4 (Cognomi del figlio legittimo). Il figlio legittimo assume i cognomi indicati da entrambi i genitori, per applicazione dell’art. 2.
L’ordine dei due cognomi è conforme alle preferenze espresse dai genitori, ove queste non siano tra loro incompatibili; in caso contrario il figlio assume come primo cognome quello del genitore dello stesso sesso. La struttura dei cognomi stabilita è mantenuta per tutti i successivi figli della coppia.
Art. 5 (Cognome del coniuge separato). Ciascuno dei coniugi può rinunciare a far uso del cognome acquisito col matrimonio, qualora vi sia procedura per separazione in corso o sia intervenuta sentenza; in tal caso al cognome mantenuto viene aggiunto il secondo cognome d’origine, precedentemente sostituito.
Art. 6 (Codice personale) L’ufficiale di stato civile attribuisce al bambino il codice che gli è proprio, secondo le stesse modalità previste per il codice fiscale.
Il codice assegnato alla nascita costituisce il codice personale del cittadino, lo accompagna lungo tutta l’esistenza e non subisce mutamenti che per rettifica conseguente ad erronea attribuzione.
Il codice personale va riportato sulla carta d’identità ed in ogni altro documento che serva all’identificazione personale. Di esso si fa menzione in ogni atto pubblico relativo al cittadino che ne è titolare.
È sufficiente aggiungere ancora alcune norme, compatibili con lo schema indicato, per avere un progetto in grado di fondare una struttura paritaria della famiglia, rimuovendo al tempo stesso ogni tratto discriminante, che rende attualmente disagevole per il figlio naturale l’assunzione del cognome materno.
Altri articoli si potrebbero certamente inserire nella nuova normativa, per dare al singolo la possibilità di modificare gli elementi del proprio nome (prenome e cognomi), ove essi non incontrino il suo gradimento.
È compito del legislatore valutare se il clima culturale e sociale del paese è maturo per una modifica di più ampio respiro, o se è preferibile, al momento, limitare ad un solo settore la riforma. In ogni caso, è tempo di cominciare, eliminando quanto meno l’arcaicità d’una situazione, che fa del cognome d’un solo genitore (quello del padre, per i figli legittimi) lo strumento mediante il quale la discriminazione giuridica uomo-donna viene istituzionalmente e subdolamente consegnata alla coscienza delle nuove generazioni.
© IoleNatoli
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