lunedì 27 gennaio 2014

IL COGNOME DELLA MADRE / Una Lettera a noidonne del giugno 1996



Figli e figlie nati di donna
Ma quanto è duro a morire il patriarcato…
di Iole Natoli

Nel giugno del 1996 usciva sulla storica rivista noidonne - con qualche piccolo taglio irrilevante, dovuto a questioni di spazio - un mio scritto indirizzato a Roberta Tatafiore, che curava la rubrica delle Lettere. Titolo, Figli e figlie nati di donna, ovvero il cognome della madre.
Rilevo en passant che il cognome della madre, anzi Nel cognome della madrerappresenta una sorta di sigla che attraversa l’intera lotta per il cognome, non solo per il suo significato ma per il ricorrere della formula linguistica.
Questo lungo filo di Arianna parte infatti da un titolo abbastanza antico, quello con cui sul quotidiano cartaceo La Stampa si annunciava e commentava il primo ricorso in Italia contro lo Stato (il mio del 1980), continua con il nome dato da Equality Italia alla sua campagna di sostegno al progetto Garavini, lanciata nel 1913, e proseguirà sicuramente altrove (se già non è riapparso a mia insaputa) finché non sarà stato risolto il problema. D’altronde “nel cognome del padre” ci siamo già, anzi ci siamo sempre stati, sempre e solo in quello, neanche fosse il primo comandamento della Bibbia “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me”…

Abbandoniamo i comandamenti simbolici e giuridici vigenti e andiamo alla lettera in questione, che riporto qui
integralmente.
“Leggo in ritardo la tua risposta a una lettera di Lorella Pintuso sul numero di novembre '95, a proposito del cognome della madre. "Non dimenticherò mai una discussione tra amiche e amici, molti anni fa", scrivi. Neanch'io. Sono la donna che nel lontano 1980 mosse causa allo Stato perché le sue figlie, nate nel matrimonio, portavano soltanto il cognome del padre. Fu il primo caso in Italia, che non giunse alla Corte costituzionale per il rigetto del giudice palermitano. Motivazione: «la norma contenuta nell'art. 237, 2° comma cod. civ.» attesta il diritto del figlio legittimo «di portare il cognome del padre» e non «il diritto di trasmettere ai discendenti il proprio cognome»; essa, dunque, «non lo attribuisce al padre (o al marito), trattandosi di un diritto di esclusiva pertinenza di

questi ultimi e quindi da essi soltanto reclamabile».
In altri termini, è il figlio che, in base all'art. 6, 1° comma cod. civ., acquista il cognome (guarda caso del padre)  e non il padre che glielo dà. Ne consegue, stando a quella decisione, che la madre non può richiedere l'esercizio d'un pari diritto visto che quel diritto non esiste.
Nella stessa sentenza si fa comunque un'ammissione importante: il diritto al cognome è «strettamente inerente alla persona che rappresenta e individua in sé medesima e nelle sue azioni... Per mezzo di tale diritto si realizza il bene dell'identità, consistente nel distinguersi nei rapporti sociali, dalle altre persone, risultando per chi si è realmente e riceve quindi tutela la identità personale; e l'identità personale è un modo di essere morale della persona». La tutela di tale bene sarebbe così alla base d'un «sistema imperniato sul riconoscimento e la garanzia dei diritti dell'uomo (il corsivo è mio), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 cit.) - prima fra tutte la famiglia - e sull'impegno di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° comma Cost.)  [Trib. di Palermo, sentenza 865 del 1982, presidente Stefano Gallo, relatore Salvatore Salvago].
È passato da allora molto tempo. Mi sono a poco a poco disinteressata della cosa, sia perché assorbita dal mio lavoro di pittrice e scrittrice, sia perché pensavo che un'altra donna - meglio ancora una coppia di coniugi, speravo - avrebbe ripercorso un giorno quella via, avvalendosi di quel precedente per strutturare in modo più efficace la richiesta.
Leggo che la recente iniziativa è stata presa in provincia di Perugia all'Anagrafe (ma bisogna passare da un Tribunale ordinario per giungere alla Corte) ancora in nome dei principî di pari dignità della donna e mi vien dato di pensare che subirà la stessa sorte della mia. Se la questione non è ancora giunta in Tribunale o la causa non è stata ancora discussa, perché i due coniugi non modificano in tempo (credo che sia possibile farlo) l'istanza, in modo che la pari dignità dei coniugi sia fatta valere non nell'ambito del diritto della donna di trasmettere il proprio cognome ma in quello dell'interesse e del diritto del figlio di riceverlo, affinché a questi sia possibile sin dai primi anni di vita percepire entrambi i genitori come persone dotate di pari dignità umana e sociale? Per il diritto del figlio, dunque, ad una sana identità personale?
Se si è ancora in tempo, credo che valga la pena di tentare. Con tantissimi augurî ai due genitori intraprendenti, che potranno mettersi in contatto con me, tramite la redazione di Noi Donne, se riterranno di qualche utilità per loro avere una più chiara cognizione di quella sentenza (rintracciabile, comunque, dagli estremi).
Cordialmente
Iole Natoli”.


Ed ecco una risposta di pochi mesi dopo di Roberta Tatafiore, che promette di pubblicare prima o poi il mio ultimo (per l'epoca) progetto. La lunghezza di cui si lamenta spiega il perché la promessa non venne poi mantenuta e spiega anche perché nessun'altra testata consultata dette spazio alla mia Proposta di Legge. 
Io, d'altronde, non potevo certo proporre di pubblicare una Legge-Telegramma.


Nel 1999 partiva da Milano l’azione giudiziaria Cusan e Fazzo che, dopo la bocciatura della Consulta, approdava nel 2007 alla Corte europea di Strasburgo, determinando l’auspicata condanna dell’Italia nel 2014, per violazione degli articoli 8 e 14 della CEDU in merito all’attribuzione del cognome ai figli. È la fine di un’epoca? Ancora presto per dirlo. Il Governo italiano, posto alle strette dall’incombenza della multa in arrivo, ha approvato un Ddl del Consiglio dei Ministri di cui non si hanno notizie confortanti. Si parla e si sparla di doppio cognome e/o cognome opzionale, materno o paterno, ma solo “a gradimento” del padre del pupo.
Perché del padre? Ma è ovvio, no? Non è forse arcinoto alle masse che è il padre a determinare col DNA mitocondriale in azione la vitalità delle cellule (e dunque la stessa possibilità di formazione e sopravvivenza del futuro figlio), a restare incintO per nove mesi e infine a partorire - non proprio con un sorriso sulle labbra - e infine ad allattare il bimbo nato? Si vorrà forse negare al maschio italico di essere il riferimento cardine del figlio, per il quale ha versato in sala parto il SUO sangue?
No? Non è esattamente così? Si sta barando? Bisognerà spiegarlo al CdM, a coloro che intorno a uno o più tavoli si affannano a occultare la natura per cucinare una versione ammodernata ma non troppo del patriarcato, convinti che il popolo delle donne - ma anche di una parte degli uomini - si lascerà prendere per i fondelli un’altra volta, senza ricorrere con maggiore forza e determinazione alla lotta. O forse no. Forse non sarà necessario continuare a “spiegarlo”, perché di prese di posizioni ufficiali contro quest’aberrazione novella se ne sono già delineate all’orizzonte: due petizioni (->) di cui una con richiesta di emendamento (->), lettere aperte al presidente della Repubblica (->), annunci di progetti ben diversi effettuati da parlamentari sveglie e agguerrite (->)…
Riusciranno queste iniziative a evitare che la maldestra formulazione ministeriale destini ancora lo Stato italiano a incasssare condanne da Strasburgo?

Milano, 27 gennaio 2014
© Iole Natoli


Nessun commento:

Posta un commento